Sono entrato nello studio di Piani come un ladro: l’amico comune sapeva che c’erano le chiavi nella toppa, Luciano era lontano e uscendo dal suo studio aveva lasciato tutto così come stava: carte dipinte erano dovunque, su ogni ripiano, sul pavimento: spalancata la finestra sono entrati l’aria fresca e il sole a sconvolgere le carte: sono emersi una montagna di Vico Calabrò, il manifesto per la morte di Tono Zancanaro, il depliant per la mostra di Firenze per Kirchner, Grosze, March…
Per un momento, comunque: le carte dipinte tornano a coprire, a comporsi.
Penso che l’altare ligneo Tedesco sceso più a sud, sia quello arrivato a San Simon di Vallada, forse sulle orme ancora fresche di Dürer con il suo rigore scenico, la fermezza dei ritratti, la schiettezza delle linee; affacciato dalla montagna sul colorismo veneto. Luciano Piani lo ha visto, assorbito, riletto, meditato e riproposto forme e contenuti. La costruzione fantastica della donna nuda sul cavallino a dondolo, i ritratti irreali e fittissimi di contenuto, la novità di certi paesaggi, di un orto con le foglie gialle di granturco e sullo sfondo certi tetti rossi che sembrano addirittura più ucraini che nord-europei dicono e raccontano due momenti complementari nella formazione dell’ uomo-artista.
I personaggi (anche il paesaggio per chi non fa cartoline è personaggio) sentono quell’ alito continuo che conoscono solo coloro che abitano lungo le valli: alla mattina alita dal nord verso il mare, alla sera soffia in senso contrario: segni fermi, colori rigorosamente puliti, talora addirittura cupi, tirati con preziosa pazienza per essere successivamente fissati da una vernice timida ed opaca, vengono all’opera pittorica sulla vena pulita di un freschissimo vento del nord; qualche tocco opulento di verde, certi segni sinuosi che accompagnano i corpi nudi di donne sensuali e mediterranee forniscono argomenti per una composizione d’insieme che esige la massima attenzione, una indagine scrupolosa.
Mi sono domandato che cosa Luciano stia andando a cercare nelle figure, negli occhi spalancati nati da lunghi ghirigori di segni puliti, fili conduttori della ricerca; nei visi della gente povera, conosciuti di persona che vive di ricordi legati alla propria terra: senza eroismi, senza spavalderie, nemmeno quelle del dolore che continua a bussare alla porta. Tutta gente semplice, comune: nessuna donna esplode soltanto per la sua bellezza esteriore, bensì per i valori nutriti al di dentro e intimamente conservati per chi è degno di scoprirli e valutarli.
Le figure scavate, le occhiaie vuote hanno la plasticità di una esistenza ineludibile.
Osservo attentamente le donne di Piani talora unite assieme ad un concerto quasi mistico di presenze silenziose o dal sorriso di altre donne immerse, a loro volta, in un proprio mondo fantastico: esse non comunicano tra loro, ma con l’ambiente che le circonda e le parole dell’ una giungono all’altra dopo aver percorso lo spazio delle valli profonde, dopo essere rimbalzate di vetta in vetta: allora il dialogo si fa corale, addirittura fra quadri diversi-accostati o meno sulla stessa parete.
Talora, quando il quadro, il disegno hanno fermato il ritratto di una donna sola, il suo sguardo esce dallo spazio circoscritto, crea un dialogo con l’ambiente circostante, si impone come parte essenziale e attende una risposta. Sia che spazi oltre la cornice, sia che scruti l’osservatore quasi per porlo a disagio o, più di frequente, a suggerire un intima convivenza di bellezza.
Quando invece nell’ invenzione immaginaria del coro femminile, nel sogno trasognato si inserisce lo sguardo dell’ uomo, Piani lo figura come quello dei rozzi vecchioni, maliziosamente incantati sulla pelle timida e pura di Susanna.
Quando gli uomini di Piani, invece sono soli hanno la stessa intensità dettata dalla consapevolezza di esistere: uomini forti, pensosi, con le rughe del lavoro segnate sul volto, sulle mani ossute.
In ogni caso i personaggi di Piani non lasciano spazio alla distrazione, ma coinvolgono irrimediabilmente lo spettatore attento a ricomporre in termini reali l’immaginifica matassa di segni, di lunghissimi tratti sottili che si incontrano, si sovrappongono, si riannodano, si sviluppano in larghe volute, si restringono in strettissimi passaggi si concentrano fino allo spasmo, ancora si dissolvono, riprendono coscienza dello spazio, svaniscono nel dialogo fitto ed eterno della mai obliata presenza della montagna come destinataria di un racconto senza fine.
DI AGOSTINO PERALE